Agli albori del Primo Scudetto

a cura di Riccardo Rizzo – Roma Club Florida

Dopo la lunga presidenza Sacerdoti, nella stagione 1935/36 Anonio Scajola, uno dei fondatori dell’A.S Roma, stimato giurista, docente universitario e senatore del Regno d’Italia in 4 legislature, assunse l’incarico pro tempore della presidenza fino al 16 Novembre 1935 quando verrà sostituito dal Commendatore Igino Betti. Il nuovo presidente, nato nel 1892, sarà alla guida della squadra fino al 9 Giugno 1941. La stagione 1935/36 si presentò assai turbolenta; tra le cause vi furono l’abbandono di Renato Sacerdoti e il caso dei 3 oriundi che fuggirono dall’Italia direzione Costa Azzurra, per paura di essere arruolati nella imminente Guerra d’Etiopia. Ma la Roma, contro ogni pronostico fu protagonista del campionato fino all’ultima giornata. Si piazzò seconda a 39 punti dietro alla corazzata Bologna con una sola lunghezza di distacco. Fu una stagione al cardiopalma per i tifosi giallorossi; la squadra dopo un inizio in sordina cominciò una galoppata entusiasmante riuscendo a recuperare ai felsinei del presidente Dall’Ara ben 4 punti e nel girone di ritorno fece più punti di tutti: 23. La squadra capitolina ebbe il miglior rendimento di punti in trasferta: 17, condivise con il Torino il primato di maggior numero di vittorie 16, e incassò meno reti di tutti: 20 in 30 gare. Unico neo fu lo sterile attacco nella classifica marcatori, vinta dall’interista Meazza con 25 reti. Il maggior goleador romanista fu Dante di Benedetti da Genzano con soli 8 gol. La Roma era guidata dal mister Luigi Barbesini che da giocatore nel 1914 si laureò campione d’Italia con il Casale del presidente Jeffe. Barbesini allenò l’A.S Roma dal 1933 al 1937. Personaggio singolare il mister: nel 1920 a soli 28 anni lasciò il calcio e 2 anni dopo fu protagonista nella Marcia su Bolzano; preludio di quella su Roma del 28 Ottobre 1922. Tornò nel calcio come allenatore ma lo spirito di avventura, nel 1939, lo spinse ad arruolarsi nella Regia Aeronautica come ufficiale. Il 20 Aprile 1941, a guerra in corso, scomparve durante una ricognizione sul Canale di Sicilia con il suo velivolo Savoia Marchetti SM79. Gli fu conferita la medaglia di bronzo al valore militare con la seguente motivazione: “Partecipò in qualità di osservatore ad innumerevoli e difficili voli di guerra dimostrando elevate doti di coraggio…”.

Tornando al presidente, venne descritto come il “Commendatore Betti” in un articolo apparso sul quotidiano “Il Littoriale” il 17 Novembre 1935. E ancora, “Iginio Betti ha 40 anni, è uno dei più apprezzati costruttori di Roma, è fascista da antica data, ex ufficiale aviatore, Podestà di Monte Rotondo. Fa parte di quella schiera di tifosi romanisti che non si mettono in mostra ma che sono la forza della squadra”. Di famiglia altolocata il nostro presidente si laureò al Politecnico di Torino a 28 anni, fu istruttore aviatore durante la I guerra mondiale ed ebbe un allievo d’eccezione: Fiorello La Guardia, futuro sindaco di New York tra il 1935 e il 1945, al quale sarà in futuro dedicato uno degli aeroporti della metropoli statunitense. Durante il Ventennio fece una fulminea carriera politica divenendo podestà di Monte Rotondo tra il 1934 e il 1943. Nella città laziale costruì, a sue spese, il nuovo ospedale del Santissimo Gonfalone. Era possidente di sterminati terreni agricoli e divenne uno dei più importanti Costruttori del Regime. Il nuovo timoniere giallorosso era un uomo affidabile, concreto e pieno di speranze, ma al suo arrivo Ferraris IV non vi era più; Bernardini invecchiava, la banda dei 3 oriundi era fuggita in Sud America senza, tra l’altro, trovare fortuna e Guaita era diventato direttore di un penitenziario, Stagnaro trovò occupazione nell’autodromo di Buenos Aires come addetto al tabellone luminoso e Scopelli allenava in terza divisione. La prima età dell’oro romanista si andava esaurendo, la magia di Campo Testaccio si indeboliva e di lì a poco lo stadio sarebbe stato demolito. Cominciava così un’altra storia, dalle ceneri della Roma di Renato Sacerdoti come un araba fenice nacque la squadra campione d’Italia. Betti fu l’artefice della riorganizzazione societaria, si dedicò alla Roma senza risparmiarsi, spostò la sede sociale da Via Monterone 12 a Via Barberini 125 dove rimase tale fino al 1952. Creò un rapporto intimo con tutti i suoi calciatori e le rispettive famiglie ospitandoli spesso nelle sue tenute per brevi vacanze. Seguiva la squadra in ritiro e in trasferta e trattava e sceglieva i calciatori in prima persona. Gli affari però iniziarono ad andare male: aveva appena risanato le casse societarie quando nell’estate del 1937 una tribuna di Campo Testaccio cominciò a scricchiolare e così venne restaurata in cemento armato. Il tallone d’Achille della sua quinquennale esperienza da presidente fu la squadra stessa in quanto non riuscì donargli la gloria che meritava. Inoltre se da costruttore aveva beneficiato delle commesse di costruzioni di grandi opere pubbliche, ora l’Italia entrava a piè pari in una politica di guerra. Mussolini era impegnato nell’impresa coloniale etiopica che risultò, dati alla mano, la più dispendiosa guerra coloniale di un paese europeo mai sostenuta. Dal 1936 l’Italia partecipò al fianco di Francisco Franco nella guerra civile spagnola dissanguandosi in un’impresa da cui non trasse alcun beneficio. Alla patria serviva ferro per i cannoni e non mattoni per case, ponti, strade e scuole. Il presidente fece tutto il possibile ma non riuscì mai a creare una squadra nuovamente competitiva. La Roma si piazzò decima nel ’37, sesta e quinta nel ’38 e ’39, settima nel ’40 e undicesima nel 1941. Il 30 Giugno 1940 Campo Testaccio chiuse i battenti definitivamente e venne abbattuto il 21 Ottobre successivo. La Roma si trasferì allo Stadio Nazionale che ospitò la finale dei Mondiali del 1934 e che poi fu trasformato in Stadio Flaminio nel 1958. Il nuovo impianto con capienza di 47.000 spettatori, fu usato dai giallorossi fino al 1956 quando fu inaugurato lo Stadio Olimpico in vista della Grande Olimpiade del 1960. Poche furono le gioie per i supporters romanisti: una fra tutte i 2 derby vinti nella stagione 1936/37; il primo si disputò proprio a Campo Testaccio il 18 Ottobre 1936 e la Roma si impose sui “cugini” con un netto 3 a 1 con doppietta di Di Benedetto e gol finale di Serantoni. Da quel momento in poi la Lazio non perse più una partita e si presentò al derby di ritorno, il 21 Febbraio, in seconda posizione a soli 3 punti dal Bologna. Quel giorno i biancocelesti, che giocavano in casa, si sentivano la vittoria in pugno, sognavano il tricolore e lo Stadio Nazionale era gremito in ogni ordine di posto; spettatore di riguardo era il gerarca fascista Galeazzo Ciano, genero del Duce e tifoso sfegatato biancazzurro, insieme alla moglie e ad uno stuolo di gerarchi d’alto rango anch’essi laziali. La cronaca della partita fu appresa dai giornali sportivi dell’epoca usciti il lunedì successivo come Il Messaggero, Il Littoriale, Guerin Sportivo e Gazzetta dello Sport. I titoli erano emblematici: “Incontro aspramente combattuto dal 1° al 90°”, “Deplorazione del furore endemico”, “Multa di 5.000 Lire a Roma e Lazio”, “IL derby romano del pugno, del cianghettone e dello sganassone”. Dalle cronache si evinse che i padroni di casa ce la misero tutta per andare in vantaggio. Ogni tentativo dei biancocelesti di andare in rete venne ostacolato dalle splendide parate di Masetti ma nel secondo tempo il “fortino” giallorosso era lì per cadere, nonostante tutti e undici erano in difesa e Bernardini marcava a uomo il bomber Silvio Piola. Al 54° l’arbitro Scarpi concesse alla Roma una punizione dal limite dell’area di rigore. Era un’occasione da non sprecare. Si presentò a battere lo specialista Alfredo Mazzoni; il centrocampista modenese fece partire una rasoiata che passò tra le teste dell’incredula barriera laziale e si insaccò come una saetta sotto la traversa: 0-1 e palla al centro. I sogni di gloria dei laziali si dissolsero con la palla dentro la loro rete, nonostante una veemente reazione la partita finì così. A fine partita era d’obbligo che le squadre si allineassero a centro campo e facessero il saluto romano verso la tribuna autorità, ma i giallorossi tendendo il braccio schernirono i giocatori rivali con gesti definiti dai quotidiani “irriverenti” e scoppiò il parapiglia. “Lo Sport Illustrato” descrisse “una scena da far west che si consumò in campo”, “…in un unico montarozzo di rosso e azzurro non si vedeva altro che tirare calci e pugni mentre l’arbitro fuggiva negli spogliatoi. Carabinieri e Metropolitani dopo molti stenti riuscirono a separare i giocatori diventati tutti energumeni e parecchi dei quali rientrarono a braccio negli spogliatoi”.

Foto d’epoca della rissa tra Roma e Lazio.

La situazione rimase tesa anche dopo la rissa e solo a inizio serata i calciatori romanisti abbandonarono lo stadio timorosi di cosa fosse potuto succedere all’esterno dell’impianto: i laziali non avevano mandato giù l’ennesimo derby perso ed erano inviperiti. Quando i “nostri” furono in strada ebbero un’inaspettata sorpresa: di fronte a loro, ad aspettarli, c’era una folla sterminata di tifosi romanisti esultanti (i giornali parlarono di circa 5.000 persone), che tra cori, sbandierate e applausi, scortarono indenni i loro beniamini fino a casa al grido Vinceremo il Tricolor. Per l’agognato scudetto ci vorranno ancora cinque lunghissimi anni ma l’A.S Roma quel giorno ebbe la conferma di poter contare sempre sui propri tifosi che l’amavano come una grande famiglia proprio come avrebbe voluto Renato Sacerdoti.

Nel prossimo articolo scopriremo i protagonisti della Roma Tricolore che fece sognare i tifosi in uno dei periodi più tristi della nostra penisola e di tutto il mondo: la Seconda Guerra Mondiale.